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Nutrizione ortomolecolare Significa preservare la salute ottimale e curare le malattie variando le concentrazioni di sostanze che sono presenti nel corpo e  che sono necessarie al mantenimento di una buona salute.

Questo è come ha introdotto e coniato il concetto il dott. Linus Pauling, premio Nobel per la chimica e per la pace, rispettivamente negli anni 1954 e 1963.

Il concetto rivoluzionario di nutrizione ortomolecolare negli Stati Uniti, è conosciuto da più di tre decenni. Il trattamento biochimico, pertanto, cura le malattie con sostanze nutritive naturali,  e non con farmaci, sostanze naturali, cioè, che fanno parte del nostro corpo, il flusso vitale che alimenta ogni sistema di organi e cellule che formano il nostro essere.

Attraverso le vitamine, aminoacidi, minerali, oligoelementi, enzimi, acid grassi e fitonutrienti, saremo in grado di ristabilire l’equilibrio biochimico, un prerequisito per la salute globale.

La scienza della nutrizione ortomolecolare, ci insegna a ripristinare la salute del paziente regolando la dieta e le sostanze nutritive all“individualità biochimica di ciascun soggetto.

Nutrizione ortomolecoalre o meglio, integrazione nutrizionale terapeutica è dunque la punta di diamante nella lotta della malattia.

PERCHE’ INTEGRARE?

L’inquinamento ambientale ed uno stile di vita incongruo contribuiscono in varia misura ad alterare il nostro stato di salute, intendendo con questo termine non la semplice assenza di malattia, ma la sensazione percepita e l’evidenza oggettiva di completo benessere psico-fisico e socio-culturale, in armonia con la Natura e l’ambiente che ci circonda.

In particolare, agenti fisici (radiazioni ultraviolette, campi elettromagnetici, etc.), agenti chimici (benzene, idrocarburi clorurati, diossina, pesticidi, prodotti della combustione del fumo di sigaretta, metalli pesanti, etc.) ed agenti biologici (virus, batteri, funghi, tossine, etc.) minano continuamente le funzioni del nostro organismo fino a favorire o causare l’insorgenza di numerose malattie, non solo attraverso un’interazione diretta con i nostri sistemi biologici ma anche indirettamente, contaminando l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo e gli alimenti di cui ci nutriamo.

Gravi le ripercussioni che tutto ciò comporta sulla qualità della nostra vita. Persino i pensieri che evochiamo e le emozioni che proviamo, infatti, possono risultare negativamente condizionati.

D’altra parte, per scelta personale o per condizionamenti socio-culturali, e, dunque, ambientali, anche lo stile di vita, se scorretto, può, attraverso un’alimentazione incongrua e/o un’attività fisica inadeguata, insieme al sovraccarico e/o l’inadeguata rimozione di cataboliti tossici, diventare di per sé un fattore di morbilità o, addirittura, di mortalità.

Inquinamento ambientale ed errati stili di vita, sinergizzando tra loro, possono alterare l’omeostasi del nostro organismo a vari livelli (sistemi, organi, tessuti, cellule, organuli cellulari, molecole) e in diversi modi (accumulo di intermedi metabolici tossici, attivazione o inibizione di enzimi, etc.). Dal punto di vista squisitamente biochimico, tuttavia, indipendentemente dai meccanismi perversi innescati, essi colpiscono direttamente “al cuore” le cellule, riducendo in varia misura la biodisponibilità dei due elementi dai quali queste e, più in generale, la vita stessa degli organismi aerobi trae la sua energia: l’ossigeno e l’idrogeno.

Infatti, quantunque possa apparire paradossale “contemplando” l’enorme complessità delle reazioni chimiche coinvolte nel metabolismo cellulare, è dall’energia scaturita dalla reazione tra questi due comunissimi elementi – opportunamente modulata a livello della catena respiratoria mitocondriale – che derivano tutti i fenomeni vitali (assorbimento, digestione, assimilazione, secrezione, escrezione, movimento, accrescimento, riproduzione, etc.).

L’ossigeno è trasportato dall’atmosfera ai mitocondri grazie agli apparati respiratorio e cardio-circolatorio, mentre l’idrogeno è “estratto” da specifiche “deidrogenasi” direttamente dai nutrienti (glucosio, acidi grassi, amminoacidi e loro intermedi metabolici), introdotti con l’alimentazione sotto forma di precursori macromolecolari (amido, trigliceridi, proteine) e veicolati all’interno della cellula grazie all’apparato digerente ed al sistema vascolare.

Appare evidente, in definitiva, che se la “domanda” di ossigeno, attraverso la respirazione, e/o quella di idrogeno, attraverso l’alimentazione, non sono adeguate al fabbisogno tissutale, la cellula andrà incontro, nel breve o nel medio termine, al depauperamento delle proprie riserve energetiche, allo scompenso metabolico e a tutte le indesiderate conseguenze da ciò derivanti (alterazioni dell’omeostasi ionica, turbe della permeabilità di membrana, attivazione di enzimi litici etc.), fino alla necrosi o all’apoptosi oppure, subentrando altri cofattori, alla trasformazione neoplastica.

Fino alla metà degli anni 50 si riteneva che l’ipossia fosse l’unico evento indesiderato in qualche modo riconducibile ad un alterato “metabolismo” dell’ossigeno. In realtà, studi relativamente recenti hanno dimostrato che anche l’aumento della disponibilità dell’elemento – iperossia – può essere pericoloso, specialmente se consegue ad una transitoria ipossia (fenomeno della ischemia-riperfusione), in quanto fa aumentare la probabilità di generare in maniera incontrollata specie chimiche altamente reattive, quali il radicale idrossile ed il perossido di idrogeno, responsabili del cosiddetto stress ossidativo.

Lo stress ossidativo:

Lo stress ossidativo è, per definizione, la conseguenza diretta dell’azione dannosa esercitata da quantità abnormemente elevate di radicali liberi sulle cellule e sui tessuti del nostro organismo.

Ma cosa sono i radicali liberi? Come agiscono?

I radicali liberi sono atomi o raggruppamenti di atomi in grado di reagire con qualsiasi molecola di cui è costituita una cellula (persino il DNA!), danneggiandola, con conseguenze spesso disastrose (alterazioni funzionali > alterazioni strutturali > morte cellulare).

Il danno è dovuto al fatto che i radicali liberi sono agenti molto “avidi di elettroni” e si stabilizzano, perdendo la potenziale lesività, solo quando riescono a strappare tali particelle dalle molecole con cui vengono a contatto (azione ossidante).

Una piccola quota di radicali liberi viene prodotta anche in condizioni normali, per effetto del metabolismo cellulare. La produzione di alcuni ormoni, per esempio, implica la generazione di radicali liberi.

D’altra parte, alcuni globuli bianchi sfruttano la produzione di questi agenti per uccidere i batteri, aiutando, in tal modo, il nostro organismo a difendersi dalle infezioni. Da questo punto di vista, i radicali liberi sono stati giustamente definiti “insostituibili compagni di viaggio” della vita cellulare.

Tuttavia, in particolari condizioni, la produzione di radicali liberi può essere talmente copiosa da costituire una seria minaccia per l’integrità delle cellule.

Quali sono le cause che inducono un aumento della produzione dei radicali liberi?

Le cause possono essere esterne o interne all’organismo.

Tra le cause esterne, ricordiamo alcuni agenti fisici (es. le radiazioni ultraviolette e ionizzanti), numerosi agenti chimici (es. idrocarburi, diserbanti, contaminanti alimentari, farmaci) e taluni agenti infettivi (es. virus e batteri).

Tra le cause interne all’organismo sono da citare l’accelerazione esagerata del metabolismo cellulare (quale si verifica, per esempio, dopo uno sforzo fisico intenso e protratto, senza adeguato allenamento) e numerose malattie (es. obesità, diabete ecc.).

In condizioni di buona salute, il nostro organismo riesce a prevenire il danno da radicali liberi grazie a dei sistemi naturali di difesa che vengono indicati con il termine di antiossidanti, proprio perché contrastano l’azione, ossidante, dei radicali liberi.

Gli antiossidanti, pertanto, sono agenti in grado di neutralizzare l’azione lesiva dei radicali liberi. Alcuni antiossidanti (es. sistemi enzimatici della superossidodismutasi e della catalasi) sono endogeni, cioè vengono prodotti dal nostro organismo di cui sono parte integrante. Altri, invece, quali ad esempio le vitamine C ed E, sono esogeni, cioè devono essere introdotti dall’esterno, per esempio con una corretta alimentazione.

Nel nostro organismo, dunque, esiste un delicato equilibrio fra produzione (esterna o interna) e “smaltimento” dei radicali liberi (da parte dei sistemi antiossidanti).

La rottura di questo equilibrio provoca l’insorgenza di lesioni cellulari che, se gravi e protratte nel tempo, conducono ad un accelerazione del processo dell’invecchiamento e all’insorgenza di numerosissime malattie molto comuni, quali l’ipertensione arteriosa, l’aterosclerosi, l’infarto, l’ictus, il morbo di Parkinson, la demenza nell’Alzheimer, la colite ulcerosa, la pancreatite, l’obesità, il diabete, la bronchite cronica, l’artrite reumatoide, alcuni tipi di tumori, ecc.

Alla luce di queste considerazioni possiamo definire ora con più esattezza lo stress ossidativo come una condizione patologica causata dalla presenza nel nostro organismo di quantità eccessive di radicali liberi e di altre specie reattive dell’ossigeno, da ricondursi ad un’eccessiva produzione di questi agenti e/o ad una ridotta efficienza dei fisiologici sistemi di difesa antiossidanti.

Oggi sono finalmente disponibili, per medici ed altri operatori sanitari, test altamente affidabili per la valutazione globale dello stress ossidativo (d-ROMs test, BAP test, OXY-adsorbent test, -SHp test), eseguibili sia presso laboratori di analisi mediante comuni fotometri (manualmente o in automatico) che in ambulatorio mediante fotometri dedicati (sistemi FRAS HeD e FREE Diacron).

In particolare, il d-ROMs test consente di determinare la concentrazione ematica dei metaboliti reattivi dell’ossigeno (ROM) e, più specificamente, degli idroperossidi (ROOH) marcatori ed amplificatori del danno cellulare da radicali liberi. I valori di normalità sono compresi fra 250 e 300 U CARR (20.00 – 24.00 mg/dL H2O2); valori superiori alla fascia borderline (320 U CARR) indicano livelli progressivamente crescenti di stress ossidativo.

Il BAP test, invece, consente di determinare l’efficienza della barriera antiossidante plasmatica in termini di attività ferro-riducente. Il valore ottimale è 2200 μmoli/L. Valori inferiori a tale limite segnalano un deficit dei sistemi di difesa antiossidanti.

Grazie a questi due test è possibile porre una diagnosi di laboratorio di stress ossidativo estremamente precisa ed affidabile, ove le due componenti contrapposte, quella pro- ed anti-ossidante possono essere valutate distintamente.

In altri termini, è possibile stabilire in tempo reale se lo stress ossidativo è dovuto ad un aumentata produzione e/o ad una ridotta capacità di eliminazione dei radicali liberi. In questo modo anche il monitoraggio della terapia antiossidante può poggiarsi su basi più solide e uscire dalla fase empirica in cui spesso viene a trovarsi.

Qualora si abbia carenza alimentare o altri fattori legati a errati stili di vita, si necessita di una integrazione alimentare ottimale che sia altamente biodisponibile e assimilabile.

Con l’alimentazione si introducono nutrienti da cui, mediante l’azione di enzimi digestivi, si ottengono glicidi, lipidi e proteine, tutte molecole necessarie al corretto funzionamento dell’organismo. La loro degradazione attraverso varie reazioni biochimiche termina con il Ciclo di Krebs, dal quale si ottiene l’idrogeno H2.

Dalla combinazione di idrogeno e ossigeno introdotto nell’organismo attraverso l’apparato respiratorio, si ottiene l’energia per la vita, cioè ATP (adenosin-trifosfato).

Le evidenze fornite dalla ricerca scientifica degli ultimi decenni dimostrano in maniera inequivocabile che l’ossigeno deve essere disponibile a livelli determinati e costanti in tutte le cellule dell’organismo, pena la comparsa di alterazioni funzionali e/o strutturali, talvolta gravi ed irreversibili. Infatti, tanto la riduzione persistente quanto un’oscillazione transitoria della sua concentrazione intracellulare possono risultare dannose.

Una riduzione persistente della concentrazione dell’ossigeno (valutata in termini di pressione parziale di ossigeno, pO2) all’interno dei tessuti e delle cellule viene genericamente definita “ipossia”.

Considerando il percorso dell’ossigeno dall’aria inspirata fino ai mitocondri, si possono distinguere, dal punto di vista patogenetico, 4 principali tipi di ipossia:

  • ipossia ipossica: da insufficiente apporto di ossigeno dall’aria al sangue
  • ipossia anemica: da riduzione della quantità/funzione dell’emoglobina
  • ipossia stagnante: da stasi della circolazione ematica
  • ipossia istotossica: da blocco della catena respiratoria mitocondriale (es. ione cianuro)

In ognuna di queste condizioni, la ridotta biodisponibilità di ossigeno può provocare una progressiva caduta dei livelli intracellulari di ATP con conseguente accumulo non solo di prodotti indesiderati della degradazione delle purine ma anche di cataboliti acidi.

Queste alterazioni biochimiche si traducono a livello clinico nella classica sintomatologia ipossica:

  • difficoltà di concentrazione con turbe della memoria
  • sensazione di affaticamento o crampi muscolari, anche dopo piccoli sforzi
  • respiro corto o dispnea
  •  tachicardia con soffi cardiaci da circolazione iperdinamica
  •  turbe della visione
  •  alterazioni dell’equilibrio e/o vertigini
  •  aumentata suscettibilità alle infezioni
  •  crescita stentata delle unghie e dei capelli
  •  turbe del vuotamento gastrico e/o acidità
  •  alterazioni della digestione e dell’assorbimento dei nutrienti
  •  possibile compromissione della funzionalità renale
  •  occhio languido e bocca asimmetrica (ipossia istotossica)

Trova, dunque, la sua più ampia spiegazione la celebre affermazione del famoso fisiologo Arthur C. Guyton: “Qualunque dolore, sofferenza o malattia cronica, è causato da una insufficiente ossigenazione a livello cellulare” (Human Physiology, 1978).

Attenzione perché non meno pericolose dell’ipossia, ai fini del mantenimento dell’integrità funzionale e/o strutturale della cellula, risultano le oscillazioni della pressione parziale di ossigeno, il cosiddetto “danno da ischemia-riperfusione”, infatti è proprio durante la riperfusione che vengono prodotti i radicali liberi.

In questo modello, la transitoria riduzione dell’afflusso ematico in un determinato distretto anatomico, a causa della riduzione del calibro delle arteriole (per vasospasmo, parziale trombizzazione o altro) o del clampaggio di un ramo arterioso maggiore (per interventi chirurgici di by-pass, trapianti d’organo o altro) provoca nei tessuti corrispondenti una condizione transitoria di ipossia, con:

  • viraggio del metabolismo in senso anaerobio (accumulo di cataboliti acidi)
  • abbassamento del pH intracelullare
  • riduzione della sintesi di ATP con aumentata degradazione delle purine
  • alterazioni dell’omeostasi ionica e di membrana
  • liberazione di calcio dalle cisterne del reticolo endoplasmatico
  • attivazione di proteasi Ca-dipendenti

Queste proteasi hanno il compito di “tagliare” proteine ed enzimi modificandone in questo modo la funzione; in questo caso la sua azione sarà svolta sull’enzima citosolico xantina deidrogenasi (normalmente responsabile della trasformazione delle purine in acido urico) trasformandolo in un enzima totalmente diverso, la xantina ossidasi (a funzione ossidante anomala).

Nel momento in cui l’ischemia viene a cessare e si ricostituisce un normale flusso ematico, l’ossigeno molecolare trasportato dall’emoglobina viene utilizzato dalle cellule non solo per produrre ATP ma anche per generare specie chimiche reattive dell’ossigeno (reactive oxygen species, ROS). Infatti, per l’azione catalitica della xantina ossidasi – forma anomala della xantina deidrogenasi – l’ossigeno genera due specie chimiche altamente ossidanti, quali il radicale idrossile (HO°) e il perossido di idrogeno (H2O2). Saranno questi ultimi i mediatori finali del danno cellulare, detto da stress ossidativi.

Appare evidente, dunque, che il mantenimento di un livello costantemente ottimale di ossigeno molecolare all’interno delle cellule e un adeguato apporto di micronutrienti sono condizioni indispensabili per il buon stato di salute dell’intero organismo.

Una soluzione ‘dolce’ e spesso risolutiva (come è ben documentata dalla scienza della micronutrizione) è rappresentata dalla Medicina Ortomolecolare. Questa si basa sulla necessità di integrare gli elementi nutrizionali (vitamine, minerali, acidi grassi e proteine), oggi decisamente insufficienti, in modo da dare all’organismo il ‘carburante’ ideale per il suo funzionamento ottimale.

Oggi l’integrazione sta acquistando sempre maggiore popolarità. Secondo le statistiche, negli ultimi 5 anni in Europa, c’è stato un aumento delle vendite di integratori alimentari del 50%. Ciò è dovuto alla maggiore sensibilità dei cittadini verso l’automedicazione.

Questo fenomeno si sta sempre più manifestando anche in Italia. Ormai la cieca fiducia nella Sanità vacilla e un numero crescente di persone si informa accuratamente prima di decidere a chi rivolgersi per ritrovare la salute. Proprio in questo contesto di individui interessati a recuperare il proprio benessere si inserisce la micronutrizione.

Una giusta integrazione con sostanze nutrizionali di vera qualità è in grado di rimetterci in forma e supplire alle sempre più presenti sub-carenze. Queste solitamente si manifestano con sintomi molto generici come stanchezza, mal di testa, bisogno continuo di mangiucchiare, sbalzi d’umore, insonnia…, e non sono riscontrabili con i normali esami del sangue, ma da altri test, come il mineralogramma, o meglio ancora, come il Test di Analisi Morfologica del Sangue.

Il nostro cibo non è più così ricco di sostanze nutrizionali. L’inquinamento nell’aria, nelle acque e nella terra ha inequivocabilmente contaminato i prodotti e, anche attraverso la lavorazione industriale, la buona parte degli elementi nutrizionali, viene distrutta. Il nostro organismo riceve quindi meno vitamine e minerali delle sue normali necessità.

A ciò si aggiunge anche l’aumentato fabbisogno organico, causato dallo stress cui siamo sottoposti.

Siamo dunque carenti di sostanze nutrizionali, per questo la supplementazione con sostanze nutrizionali trova sempre più consenso.

La scienza ha ormai da tempo appurato che l’integrazione attraverso le sostanze nutrizionali è preventiva e terapeutica.

Tuttavia, approfondendo sempre di più l’argomento, si è evidenziato che non tutto ciò che viene offerto sul mercato è valido, infatti, in alcuni casi, può persino rivelarsi dannoso.

L’integrazione fa bene o fa male?

La risposta bisogna andarsela a cercare con tenacia e senso critico perché, per i forti interessi economici delle grosse aziende farmaceutiche, i risultati ottenuti dalla scienza sono sovrastati dalla pubblicità che promuove tutto, purché si paghi.

Ci sono alcune vitamine che, se di sintesi, presentano una catena chimica diversa da quelle naturali. Se si introducono vitamine dalla struttura chimica differente, l’organismo non le riconosce come ‘amiche’. Invece per le vitamine naturali si è riscontrata  una capacità di assimilazione del 50% superiore a quella in risposta a prodotti di sintesi (come si trovano abitualmente sul mercato).

Un altro punto sui cui bisogna fare attenzione è l’abitudine di aggiungere eccipienti, per dare gusto e colore. Queste sostanze non sono mai state dichiarate benefiche per l’organismo…e di questo argomento parlerò ampiamente anche nella pagina “Dieta G.I.F.T.”

L’ultimo fattore importante è che le sostanze nutrizionali, per essere veramente efficaci e positive, necessitano di essere presenti in quantitativi adeguati e soprattutto sinergici tra loro.

L’assunzione di prodotti il cui equilibrio fra gli elementi non è stato giustamente calibrato produce, nel tempo, degli squilibri metabolici dannosi all’organismo.

L’individuo che tiene alla propria salute dovrà vedere di acquistare dei prodotti che gli offrano tali garanzie.

Le sostanze nutrizionali – Gli strumenti della Medicina Ortomolecolare

Alle sostanze nutrizionali appartengono le vitamine, le sostanze minerali, gli oligoelementi, gli aminoacidi e gli acidi grassi essenziali. Essi sono assolutamente necessari alla conservazione della vita e della salute. Il corpo li ricava dagli alimenti o dai supplementi nutrizionali poiché non è in grado di produrli tutti da solo. Attualmente sono ben 45 le sostanze nutrizionali considerate essenziali. Di alcune sostanze l’organismo ne necessita solo una quantità minima, tra queste alcune vitamine e gli oligoelementi, che vengono indicati come micro-sostanze nutrizionali o micronutrienti.

Come agiscono i micronutrienti nella prevenzione e nel trattamento delle malattie?

Una sostanza nutrizionale può curare una malattia in corso, o prevenirne una futura, grazie anche alla stimolazione del metabolismo cellulare che permette ai tessuti di mantenersi sani. Chi, per esempio, in età adulta inizia in tempo ad assumere una giusta quantità di calcio, prendendo – come supplemento ad una sana e bilanciata alimentazione – un’aggiunta di sostanze nutrizionali contenenti calcio, magnesio e vitamina D, stimola nel suo organismo uno scambio ottimale di minerali nelle ossa. Ciò contribuisce a mantenere la struttura ossea coesiva e resistente e a diminuire il rischio di osteoporosi e di fragilità. Lo stesso accade con l’assunzione di vitamina B6 che, presa come supplemento, migliora le funzioni delle cellule immunitarie, migliorando a loro volta la resistenza alle infezioni.

Il nostro “ricco” cibo povero

Il nostro cibo non è più così ricco di elementi nutrizionali. Nel numero di gennaio 1998 Alternative Therapies, vol.1, n.1. Virginia Worthington illustra ampiamente come la qualità del terreno si riflette sulle coltivazioni. Per esempio, già da tempo è risaputo che terreni poveri di iodio hanno come conseguenza una più facile disposizione a delle disfunzioni della tiroide e la conseguente formazione del gozzo.

L’autrice, riferendosi alle ricerche scientifiche effettuate, sottolinea come i terreni vengano realmente impoveriti di sostanze nutrizionali solitamente presenti e squilibrati nei loro naturali processi, attraverso l’utilizzo di pesticidi e fertilizzanti. I diserbanti alterano la qualità nutrizionale delle colture.

La terra, le acque, l’aria e l’atmosfera sono decisamente cariche di elementi nocivi (Vedi atti del convegno internazionale “Ambiente e salute” tenutosi a Milano il 24 e il 25 maggio 1997 da Evergreen Scuola della Salute).

La costante assimilazione dell’organismo di queste sostanze tossiche porta a un accumulo che si manifesta poi in immancabili patologie. Tuttavia, questa indiscutibile situazione non viene effettivamente riconosciuta dall’interessato perché la strisciante intossicazione, che avviene nell’organismo umano, è lenta e spesso occulta. Gli effetti, infatti, non sono immediatamente rimandabili alle cause che li hanno generati. Un avvelenamento acuto, per esempio, si può riscontrare nel giro di poco tempo. Un avvelenamento da materie tossiche nell’ambiente si manifesta, invece, nel giro di mesi, anni, a volte decenni.

I metalli tossici accumulati nel corpo – come piombo, cadmio, mercurio, platino, nickel, alluminio, ecc. – non sono ‘solo’ la causa di una lenta intossicazione, ma al contempo distruggono gli elementi nutrizionali essenziali e stimolano una ulteriore produzione di radicali liberi nocivi.

Un punto negativo da non sottovalutare, è determinato dal fatto che i metalli tossici presenti nell’organismo impiegano dai 13 ai 38 anni per essere effettivamente eliminati. Il solo esame del sangue non rivela la presenza di questi elementi in quanto, dopo poche ore dall’assimilazione, questi metalli pesanti vengono trasferiti dal sangue ai tessuti molli. Un esame condotto su 50 poliziotti urbani svizzeri. Ai poliziotti venne fatto un primo esame del sangue subito dopo il loro servizio nel traffico cittadino e un secondo dopo otto ore. Nel secondo test non c’era più traccia di metalli tossici nel sangue!

Oltre alle sostanze tossiche presenti nell’ambiente inquinato, si stanno ora appurando gli effetti deleteri delle onde elettromagnetiche (apparecchi elettrici, telefonini, ecc.). Questi, disturbando i campi magnetici degli organismi viventi, sono fonte preoccupante di scompensi organici. Da studi svolti nei laboratori di ricerca si è evidenziato come, per esempio, le cellule del sistema immunitario vengano decisamente modificate dalle radiazioni elettromagnetiche (Prof. Settimo Grimaldi del CNR di Roma). ….ma di questo parlerò approfonditamente nelle pagine “STRESS GEOPATICO”

Come se tutto ciò non bastasse, il nostro cibo, che dovrebbe poterci garantire l’apporto di sostanze nutrizionali, viene ulteriormente impoverito attraverso la lavorazione industriale.

Il dott. Roberto Bazzanella, specialista in Ematologia Clinica e di Laboratorio di Milano, in un suo articolo su Vitamine, carenze ed integrazione, apparso sulla rivista del settore L’Integratore Nutrizionale, n. 2 1999, CEC edizioni di Milano, così scrive: “I diversi trattamenti cui sono sottoposti i cibi, per la cottura e la conservazione, possono ridurre il contenuto vitaminico degli alimenti. Durante le normali operazioni di cottura in acqua delle verdure fresche, si può andare incontro a perdite vitaminiche fino al 60/70%. (…) I processi tecnologici ed industriali cui vengono sottoposti gli alimenti per assicurarne la conservazione ed evitarne la contaminazione batterica, influiscono negativamente sul contenuto vitaminico degli stessi. I trattamenti ad alte temperature sono responsabili di perdite vitaminiche importanti: i vegetali, per esempio, quando vengono ‘sbiancati’ (un processo tecnologico utilizzato per diminuire la carica batterica degli alimenti e per ‘fissare’ il colore degli stessi) possono perdere il 15/60% del contenuto di vitamina C, il 5/30% di vitamina B1 e il 10/40% di vitamina B2. La sterilizzazione ad alte temperature e la pastorizzazione del latte possono indurre perdite di vitamina C fino al 20%, mentre non si hanno perdite significative di vitamine A e D. I processi di disidratazione, se non condotti con opportuni accorgimenti durante le fasi preliminari, possono essere responsabili del depauperamento vitaminico degli alimenti. Il surgelamento e la conservazione dei cibi a –18°C, al contrario, non comportano perdite eccessive di vitamine, tuttavia la temperatura sembra essere un fattore limitante, poiché il semplice aumento di pochi gradi centigradi, ad esempio la conservazione a -9°C, provoca in poche settimane la perdita fino al 50% delle vitamine ossidabili.”

È dunque chiaro che il nostro cibo non è più così ricco di sostanze nutrizionali e gli alimenti che noi ingeriamo non sono più in grado di arricchire il nostro sangue e mantenere in uno stato di benessere il nostro intero organismo.

La condizione di globale inquinamento ambientale e la povertà del cibo di cui oggi disponiamo porta l’organismo a necessitare di maggiori elementi nutrizionali per poter riuscire a far fronte al peso di questo aumentato stress fisiologico. Se ciò non avviene si instaurano, subdolamente e nel tempo, le carenze nutrizionali.

Le diverse esigenze nutrizionali, ovvero “l’individualità biochimica”

Il professor R-J. Williams ha sviluppato il concetto della ‘individualità biochimica’, un principio basilare della medicina ortomolecolare. Lo descrive come segue:

‘Ogni individuo dispone di un proprio regime di sostanze nutrizionali. Sebbene l’elenco delle sostanze nutrizionali necessarie sia uguale per tutti, le singole quantità di cui abbiamo bisogno non devono essere obbligatoriamente le stesse per ogni individuo’.

Detto più semplicemente significa che ogni persona ha un proprio e soggettivo fabbisogno di sostanze nutrizionali. A causa delle nostre predisposizioni genetiche, la biochimica del nostro organismo funziona in ognuno di noi in modi diversi. Il fabbisogno di sostanze nutrizionali delle nostre cellule è individuale e differente da persona a persona: ciò che può bastare a uno, può essere insufficiente a un altro. Molto dipende dal tipo di costituzione che ci ritroviamo e dal genere di vita che conduciamo.

L’individualità biochimica spiega perché gli individui reagiscono diversamente ai fattori nutrizionali. In alcune persone il consumo di sale, per esempio, provoca l’ipertensione mentre in altri non provoca alcun effetto indesiderato. Troppo zucchero raffinato e grassi conducono in molti casi al diabete, tuttavia, ciò non sempre accade. Alcuni individui a causa della loro predisposizione genetica sono più soggetti a ipertensione o al diabete.

Vantaggi offerti dagli integratori ortomolecolari

Per lo sviluppo dei prodotti ortomolecolari si preferisce scegliere quelle sostanze necessarie alla salute che generalmente sono presenti nel nostro organismo e nei cibi sani. Nella preparazione delle sostanze nutrizionali ortomolecolari si cerca di evitare, dove ciò è fattibile, l’utilizzo di elementi estranei all’organismo. Inoltre non bisogna dimenticare che in un prodotto di sostanze nutrizionali i vari elementi devono essere presenti in un rapporto equilibrato e sinergico tra loro, così da corrispondere alle necessità fisiologiche dell’organismo. Per esempio, calcio e magnesio dovrebbero essere in un rapporto di ca. 2-3:1; oppure lo zinco e il rame in un rapporto di almeno 5-6:1. Prodotti squilibrati assunti per lungo tempo possono sbilanciare il metabolismo o portare a un diminuito assorbimento di altre sostanze nutrizionali. I prodotti ortomolecolari rispettano, in generale, queste relazioni fra gli elementi.

Fonte principale: Fondazione per lo sviluppo della Medicina Ortomolecolare e della Micronutrizione di Rapperswil in Svizzera