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L’ipertermia in oncologia è definita come la modificazione della temperatura a livello del tessuto tumorale in un intervallo compreso fra i 41 e i 45 °C.

Fin dai primordi della medicina si usava trattare piccoli tumori non ulcerati con il ferro incandescente (Ramajama 2000 a.C; Ippocrate 400 a.C; Galeno 200 d.C). Dopo il Rinascimento ci furono numerosi casi riportati di regressioni tumorali spontanee in pazienti con erisipela, vaiolo, tubercolosi, malaria, influenza. Un fattore comune a tutte queste malattie era la presenza per diversi giorni di febbre elevata, intorno ai 40 °C.

La prima documentata evidenza che le temperature elevate potevano avere un effetto terapeutico sui tumori è attribuita a Bush, che nel 1866 riferiva della scomparsa di un sarcoma della faccia, istologicamente documentato, dopo due attacchi di erisipela. Casi simili furono successivamente descritti da un chirurgo americano, Wiliam B. Coley (1893), il quale, alla fine del secolo scorso, trattò diversi pazienti oncologici con una tossina estratta da batteri (tossina di Coley).

Sebbene sia difficile valutare il ruolo della iperpiressia e della immunoterapia aspecifica in questo tipo di trattamento, il lavoro di Coley stimolò altre ricerche per identificare l’importanza dell’ipertermia nei tumori sperimentali degli animali e nei pazienti neoplastici.

Uno dei pionieri dell’ipertermia locale indotta dall’esterno fu un ginecologo svedese (Westermark 1898), che applicò l’ipertermia in un carcinoma avanzato della cervice uterina. Egli usò una spirale metallica, attraverso la quale veniva fatta circolare dell’acqua calda, a diretto contatto con il tumore. Con questo tipo di trattamento si ottennero dei discreti effetti palliativi. Il figlio di Westermark, Nils, pubblicò nel 1927 una tesi su «Effetti del calore sui tumori del ratto», destando l’interesse di Kristian Overgaard (1899-1976), che nel suo laboratorio di Aarhus, in Danimarca, compì numerosi studi in questo campo (l’ultimo lavoro fu pubblicato nel 1977, un anno dopo la sua morte). Queste ricerche sono condotte oggi dal figlio, Jeans Overgaard, presso l’Institute of Cancer Research di Aarhus.

Basi biologiche

L’ipertermia è di per sé citotossica. Se si osserva la frazione di crescila di cellule in coltura in funzione del tempo e della temperatura, si possono notare delle curve simili a quelle evidenziabili con le radiazioni ionizzanti, con o senza una spalla iniziale seguita da un decremento esponenziale (Dewey et al.. 1977).

Modificazioni istologiche

Immediatamente dopo il trattamento ipertermico si verificano a livello tumorale emorragia ed edema, probabilmente come conseguenza del danno vascolare precoce, consistente in stasi e aumentata permeabilità vascolare, combinato con una riduzione del volume vascolare funzionale.

Nell’arco di poche ore le cellule tumorali divengono isolate. Il citoplasma si raggrinza, diviene più acidofilo e i bordi cellulari diventano difficili da distinguere al microscopio ottico. l nuclei mostrano inizialmente una condensazione e granulazione della cromatina e successivamente divengono piccoli, scuri e picnotici. Tipicamente l’attività mitotica viene bloccala immediatamente dopo il trattamento ipertermico (Overgaard e Overgaard, 1976).

Le modificazioni istologiche tardive sono rappresentate dalla sostituzione delle cellule tumorali distrutte da parte di fibroblasti e macrofagi, che alla fine portano alla formazione di una cicatrice fibrotica.

Ciclo cellulare

È ben noto che la risposta delle cellule alle radiazioni ionizzanti e alla chemioterapia varia con la fase del ciclo cellulare. Questo vale anche per l’ipertermia. In particolare la fase S (sintesi del DNA), ovvero la fase del ciclo cellulare più resistente all’azione dei raggi X, è la più sensibile all’azione letale dell’ipertermia (Westra e Dewey, 1971).

Modificazioni cellulari

I bersagli più importanti dell’ipertermia sono rappresentati dalla membrana cellulare e dal DNA. L’aumento della temperatura modifica la fluidità della membrana cellulare, a causa dell’alto grado di disordine delle catene fosfolipidiche. In conseguenza di ciò si verificano modificazioni di struttura delle proteine, con successiva alterazione delle attività enzimatiche e della permeabilità. Le alterazioni della membrana cellulare sono alla base dell’incremento dell’azione citotossica di molti farmaci antiblastici, anche in linee cellulari resistenti (Konings, 1988).

È ormai noto che l’effetto radiosensibilizzante dell’ipertermia è legato all’inibizione della riparazione del danno subletale indotto sul DNA. Kampinga et al. (1987) hanno osservato un aumento delle proteine legate al nucleo in cellule riscaldate. Ciò potrebbe essere alla base dell’effetto radiosensibilizzante del calore, poiché una ridotta accessibilità al DNA da parte degli enzimi di riparazione impedirebbe la riparazione del danno indotto dalle radiazioni.

Alcuni lavori hanno indicato una maggiore sensibilità delle cellule tumorali all’ipertermia, rispetto alle cellule sane (Giovannella et al., 1976), ma studi più recenti non dimostrano in genere una significativa differenza.

Esiste comunque una serie di fattori extracellulari che condiziona la termosensibilità. L’ipossia, che crea notevoli problemi in radioterapia, aumenta la sensibilità all’ipertermia (Kim et al., 1975); inoltre le zone poco vascolarizzate dei tumori possono essere caratterizzate da deplezione nutrizionale e maggiore acidità rispetto al circostante tessuto normale. Sia un ridotto valore extracellulare di pH sia uno scarso apporto nutritivo sono alla base dell’aumento del cell killing in vitro (Gerweck, 1977).

Principali modalità cliniche per l’induzione di ipertermia

L’ipertermia total body rimane ancora un trattamento sperimentale, sempre usato in combinazione con la chemioterapia, e in cui le temperature raggiungibili sono ovviamente limitate e non confrontabili con quelle che si possono ottenere nel trattamento locale. Maggiori possibilità derivano dall’ipertermia perfusionale, in particolare nella terapia post-chirurgica del melanoma a livello degli arti (Di Filippo et al., 1987).

Più interessanti e di maggiore uso clinico sono le modalità per indurre ipertermia locale, rappresentate da:

l) ultrasuoni con frequenze comprese fra 0,3 e 3 MHz;

2) radiazioni elettromagnetiche a frequenze < 300 MHz (radiofrequenze);

3) radiazioni elettromagnetiche a frequenze comprese fra 300 e 2450 MHz (microonde).

Gli ultrasuoni penetrano maggiormente nel grasso rispetto al muscolo (per esempio, la profondità di penetrazione con frequenza di 1 MHz è di 4 cm nel  muscolo e di 31 cm nel grasso). Con gli ultrasuoni è possibile focalizzare l’energia su piccoli volumi anche a notevole profondità. Il problema è legato all’impedenza fra tessuti molli e aria e fra tessuti molli e osso: queste interfacce causano la riflessione quasi completa dell’energia ultrasonica. Il limite all’applicazione clinica degli ultrasuoni è legalo al dolore intollerabile, che non consente di raggiungere temperature utili in oltre il 50% dei pazienti, e che è dovuto al grande assorbimento a livello osseo (relazione presentata da J. Meyer, del Dipartimento di Radioterapia Oncologica, Stanford University, al 5th International Symposium on Hyperthermic Oncology, Kyoto, 1988).

L’ipertermia capacitiva con radiofrequenze si effettua mediante due placche capacitive eccitate da un generatore a radiofrequenze. Esistono attualmente apparecchiature molto sofisticate come il Thermotron, basate su questo principio. Il problema di questa tecnica è legato alla condizione di confine fra strato di grasso e strato di muscolo, che situandosi in parallelo rispetto alle placche provoca un riscaldamento preferenziale del tessuto grasso, con scarsa penetrazione in profondità. Questo metodo può essere applicato con buoni risultati in soggetti con scarso pannicolo adiposo, anche per neoplasie intraddominali. L’ipertermia induttiva con radiofrequenza utilizza applicatori a spirale eccitati da radiofrequenze di 13.56 MHz, in cui le linee del campo elettromagnetico sono coassiali rispetto alla zona da trattare (Magnetrode) (Storm et al., 1983).

Con le tecniche di ipertermia radiativa con microonde (o anche con frequenze più basse), l’energia elettromagnetica è trasferita all’interno del tessuto mediante un’oscillazione di ioni o cambiamenti nell’orientamento magnetico delle molecole, che è localmente convertito in calore. Con questo metodo è possibile trattare neoplasie non più profonde di 5 o 6 cm, a meno che non si ricorra ad applicatori multipli in fase, con configurazione circolare (Annular Phased Array, BSD Medical Corporation, USA). L’MHS (ENEASMA) è un’apparecchiatura per ipertermia di tipo radiativo.

Concetto di dose in ipertermia

In radioterapia l’energia assorbita corrisponde alla dose di radiazioni in Gy a cui fa riscontro un determinato effetto biologico. Con l’ipertermia il concetto è diverso, come illustrato da Hahn (1982). Se si considera una coltura di cellule tenute inizialmente a 37 °C e riscaldate repentinamente a 43 °C, il trattamento, che avviene con deposizione di energia, non uccide nessuna cellula. Se invece il sistema viene mantenuto alla temperatura di 43 °C, senza depositare energia, il cell killing sarà semplicemente il risultato del mantenimento delle cellule a una temperatura elevata. Cioè l’effetto biologico del calore dipende dalla temperatura e dal tempo di riscaldamento, mentre l’energia assorbita non può essere usata in modo soddisfacente per prevedere la risposta biologica all’ipertermia.

Attualmente, in accordo con Sapareto e Dewey (1984), si usa descrivere trattamenti ipertermici in minuti equivalenti a 43 °C, usando cioè i 43 °C come temperatura di riferimento. Purtroppo la misurazione della temperatura in ogni punto del tumore è lungi dall’essere ottenuta e solo raramente è possibile riscaldare in modo uniforme una massa tumorale, e quindi è attualmente impossibile raggiungere una reale uniformità di dose. Inoltre la formula di Sapareto e Dewey è valida solo per trattamenti in cui ci siano modeste variazioni intorno a una temperatura prescelta. Esistono numerosi problemi per quel che riguarda le brusche cadute di temperatura; la mancanza di uniformità e l’uso dell’ipertermia in associazione a diverse modalità, come la radioterapia e la chemioterapia, rendono inoltre ancora più difficile la definizione del concetto di dose.

Razionale dell’associazione radioterapia + ipertermia

L’ipertermia come unico trattamento permette di ottenere in clinica risposte solo parziali in circa il 20% dei pazienti (Sannazzari et al., 1986). Esistono però numerosi dati sperimentali e clinici che dimostrano un effetto sinergico con le radiazioni ionizzanti.

Soprattutto in presenza di grosse masse neoplastiche la radioterapia da sola non riesce a ottenere la remissione completa, a causa di diversi fattori:

  • radioresistenza intrinseca:
  • popolazione cellulare eterogenea;
  • dose limitante, legata ai tessuti .sani circostanti:
  • volume troppo grande per una terapia radicale;
  • scarsa vascolarizzazione e conseguente ipossia.

L’ipertermia interagisce con le radiazioni per mezzo di due tipi di meccanismi: la citotossicità diretta e l’effetto radiosensibilizzante. Il primo è responsabile dell’eliminazione delle cellule che si trovano nella fase S del ciclo e soprattutto di quelle che si trovano in aree poco vascolarizzate e quindi poco ossigenate. L’effetto radiosensibilizzante è legato invece a una riduzione della riparazione del danno subletale e potenzialmente letale dopo radioterapia.

Diversi fattori influenzano l’interazione dell’ipertermia con le radiazioni ionizzanti:

  • tempo di riscaldamento:
  • temperatura raggiunta;
  • sequenza dei trattamenti;
  • intervallo fra i trattamenti;
  • numero di trattamenti;
  • dimensioni del tumore;
  • vascolarizzazione.

Il vantaggio terapeutico ottenuto viene definito TER (thermal enhancement ratio). In clinica il TER rappresenta il rapporto fra la percentuale di risposte complete dopo radio-ipertermia e la percentuale di risposte complete dopo la sola radioterapia. Le informazioni più dettagliate si riferiscono al trattamento combinato del carcinoma mammario localmente avanzato e delle adenopatie metastatiche del collo. Confrontando la radioterapia da sola con il trattamento combinato radio-ipertermico, il valore di TER è di 1,5 per la mammella e di 1,4 per le adenopatie testa-collo. Nel melanoma si riesce a ottenere in clinica un TER di 2 (Overgaard, 1988. comunicazione personale). In tutti gli studi clinici finora pubblicati si osserva un vantaggio in termini di risposta completa, usando il trattamento combinato radioterapia + ipertermia (lab. 22.1).

In definitiva, per quanto riguarda la regressione di tumori superficiali la combinazione radioterapia + ipertermia è sicuramente superiore alla sola radioterapia. D’altra parte il riscaldamento di tumori situati in profondità rappresenta ancora un complesso problema tecnico. Rimane una sfida aperta per i fisici e gli ingegneri sviluppare un sistema che permetta la deposizione del calore in profondità, raggiungendo temperature di 42-43 °C. Attualmente discreti risultati possono essere ottenuti in profondità su tumori della pelvi, mediante l’Annular Phased Array, prodotto dalla BSD (Steindorfer et al., 1988).

Per quanto riguarda il numero di frazioni di ipertermia in un trattamento ottimale occorre tenere presente il fenomeno della terraotolleranza. Un recente lavoro randomizzato del gruppo di Stanford (Kapp et al.. 1986) indica che due app applicazioni (meno di una alla settimana) sono sufficienti per un trattamento ottimale, se combinalo con la radioterapia. È ipotizzabile che uno o due trattamenti settimanali possano causare una così importante distruzione cellulare non tanto per il modesto effetto radiosensibilizzante, quanto per l’effetto diretto sulla popolazione cellulare radioresistente, rappresentata verosimilmente dalle cellule ipossiche a basso pH.

Razionale dell’associazione chemioterapia + ipertermia

Molti studi sperimentali hanno dimostralo un incremento del cell killing con l’aumento della temperatura, per molti farmaci antitumorali. In particolare tali farmaci possono essere divisi in quattro categorie (Dahl, 1988);

1)     farmaci che aumentano la citotossicità in vitro in modo lineare, con l’aumento della temperatura: alchilanti, mitoxantrone, mitomycin C, cisplatino, lonidamina;

2)   farmaci che aumentano la citotossicità senza incremento lineare, ma con effetto soglia a 42-43 °C: adriamicina, bleomicina, actinomicina D;

3)   farmaci che non dimostrano citotossicità a 37 °C, ma che diventano citotossici a più alte temperature: cisteamina, anfotericina B, lidocaina;

4)   ) farmaci che non modificano la loro tossicità variando la temperatura da 37 a 45 °C: metotrexate, 5-fluorouracile, amsacrina, vincristina, vinblastina.

L’interazione tra farmaci e calore è legata in gran parte al danno sulla membrana cellulare, che si verifica dopo ipertermia (Lepock, 1982), con conseguente maggiore captazione (o minore eliminazione?) del farmaco all’interno della cellula.

Altro meccanismo di interazione è l’inibizione della riparazione del danno cellulare indotto dal farmaco.

Molto interessante è il fatto che linee cellulari resistenti diventano sensibili allo stesso trattamento combinato con ipertermia (Wallner et al.. 1986). Ciò enfatizza il ruolo potenziale di questa metodica per superare la resistenza ai chemioterapici.

La massima citotossicità si verifica in vitro e nell’animale da esperimento quando i farmaci e l’ipertermia vengono usati in modo simultaneo. Anche una separazione di 2-3 ore fra i due trattamenti fa perdere il sinergismo di azione (Dahl e Mella, 1983). Solo due studi clinici randomizzati sono stati effettuati sulla combinazione chemioterapia + ipertermia locale e ambedue dimostrano un incremento significativo della risposta obiettiva (Arcangeli et al., 1980; Kohno et al., 1984).

Nella nostra esperienza di associazione chemioterapia + ipertermia locale, mediante apparecchiatura MHS, su pazienti con malattia metastatica molti dei quali pesantemente pretrattati, abbiamo ottenuto una percentuale di risposta obiettiva pari al 65%, di cui il 25% RC, con una durata di risposta variabile da 2 a oltre 22 mesi.

L’associazione chemio-ipertermica può essere effettuata come terapia neoadiuvante, prima della radioterapia, nei pazienti con recidive o metastasi poco profonde da tumori delle testa e collo. In tali casi la radioterapia successiva rappresenta una terapia di consolidamento, ai fini di un più duraturo controllo locale. Non è comunque trascurabile il ruolo palliativo che la combinazione chemio-ipertermica può avere nei pazienti con recidive tumorali in aree precedentemente irradiate.

Una nuova ipotesi di studio, che tiene conto dell’effetto adiuvante dell’ipertermirsirsulla’chemio- che sulla radioterapia, è il trimodality treatment, che prevede una simultaneità fra chemioterapia (clsplatino). Ipertermia e radioterapia nelle neoplasie epiteliali localmente avanzate della testa e collo.

Attualmente le applicazioni cliniche di maggiore interesse per l’ipertermia sono rappresentate da melanoma metastatizzato, adenopatie metastatiche in Otorinolaringoiatria, neoplasie mammarie localmente avanzate, recidive della parete toracica.

La possibilità di trattare neoplasie profonde mediante ipertermia può oggi trovare una risposta soddisfacente quando la neoplasia è raggiungibile attraverso cavità naturali (terapia endocavitaria delle neoplasie esofagee, prostatiche, rettali, vaginali), mentre ulteriori sviluppi della tecnologia sono necessari per un corretto trattamento ipertermico di neoplasie addominali, sia per quanto riguarda gli applicatori che per le difficoltà legate alla termometria.

Capitolo tratto da “Terapia oncologica” di L. Frati e A. Notario, 1992 – Ed UTET, ISBN 88-02-0461-7